Questo breve ciclo di liriche, composto nel 91-92, mette in musica alcune poesie di Emily Dickinson. Ne ho scritte due versioni, la prima - per soprano, flauto, tromba, percussione, arpa e violoncello - contiene cinque poesie; la seconda è per soprano, flauto, clarinetto, pianoforte, violino e violoncello e ne contiene quattro.
La radicalità della poesia di Emily Dickinson ha profondamente condizionato l’elaborazione compositiva di
Least Bee. In questo pezzo coesistono infatti due obiettivi formali opposti: da un lato la scelta di mezzi estremamente semplici - pochi gesti minimi, come “segnali”, e pochi principi di relazione governati da quello elementare della ripetizione; dall’altro un sottile lavoro di elaborazione timbrica, che attribuisce agli elementi semplici significati continuamente mutevoli, così da illuminare di diverse intenzioni ogni singolo gesto.
Mi piace riportare il commento di un ascoltatore presente alla prima esecuzione di questa versione, a New York, nel 1994. Le sue parole mi hanno colpito per la sensibilità con cui hanno saputo spontaneamente cogliere le mie intenzioni:
«Il cantante ripete “silenziosamente” i versi, dicendo col silenzio la difficoltà della poesia di Emily Dickinson, e i processi cognitivi ellittici che accompagnano la sua lettura. Ogni strumento dell’ensemble rivela possedere ampi spettri di suono e mano a mano ci si rende conto che ognuno è suonato non tanto come semplice centro produttore e propagatore di frequenze, durate, timbri, ma come un meccanismo che produce il suo avanzare pesante, il suo respirare fino all’ansimare, il suo boccheggiare. Anche questa qualità sembra appropriata a un pezzo che ha a che fare con la Dickinson. I suoi testi mostrano i propri organi interiori a ogni snodo, nonostante la Dickinson si sforzi di rivestirli di un aspetto formale. Penso ai casi in cui tenta di conformarsi a uno schema di rima tradizionale mentre la poesia non lo permette e spinge così avanti il suo corpo aborigeno» (Tim Davies, 1994).
Stefano Gervasoni, May 2000
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L’occasione della poesia
La distanza è uno dei motivi di ispirazione più frequenti nella grande poesia. Per Emily Dickinson è metafora della morte - quando la morte non è metafora della distanza, in uno di quei ribaltamenti della prospettiva da cui è possibile guardare il simbolo che nella sua poesia non sono rari.
Il capovolgimento paradossale è la logica attraverso cui la Dickinson risolvette il problema della separazione - e non si trattò di un semplice gioco di parole, staccato dalla percezione immediata della vita. Fu quando raggiunse il culmine dell’ansia, divisa dall’essere - il Dio degli avi puritani - e dagli uomini - le persone che aveva sentito più vicine e che se n’erano irrimediabilmente “andate” - che Emily accolse la visitazione gratuita di quella grazia che aveva sempre, inutilmente, cercato.
Si accorse, poi, che poteva rivivere questo evento nella poesia, dove accadeva più spesso che si ripetesse. Bastava non desiderare più di possedere i colori, per vederli rifrangersi - come il prisma - dentro di sé, in un gioco ebbro di luce che traspariva all’esterno. E bastava fare il silenzio attorno al ronzio sommesso, e dimesso, dell’ape, per udirlo trasformarsi lentamente in musica.
L’atomo - il punto infinitamente più piccolo - diventa allora un mito - un mondo senza confini. Ciò che sembrava dimorasse al proprio fianco è proiettato a distanze astrali, mentre quello che appariva irraggiungibile si rivela tanto prossimo da poterlo toccare.
E’ lo sguardo del poeta che attribuisce il significato alle cose, ma è uno sguardo che attende il momento in cui il tempo favorevole dell’occasione, breve e finito, incontra il tempo di cui non è dato conoscere l’origine, né la fine.
Paola Loreto
The occasion for poetry
The concept of distance has often inspired great poetry. In the poems of Emily Dickinson distance is a metaphor for death—whenever death is not turned into a metaphor for distance. In fact, she sometimes made it possible to look at her symbols in a symmetrical and reversible double perspective.
The logic of the paradoxical reversal was her solution to the problem of separation. It was not mere wit, deprived of all relation to reality. On the contrary, it was just when she reached the climax of anxiety, and found herself separated from the ultimate Being (the God of her Puritan ancestors) and from her fellowmen (the people she had been strongly attached to, and who were “gone” forever, in one way or another)—that she became able to welcome the freely-given Grace she had always been pursuing in vain.
Later she realized that she could experience the same feeling in poetry, where something very similar happened at the moment of creation. Like the Prism of one of her poems, she simply had to check her will for possession to be able to hear colors play a far-reaching melody within herself. Otherwise, she simply had to listen to silence to be able to hear the imperceptible hum of the bees of another of her poems growing into an audible song.
The Mote—the minutest point—becomes, then, a Myth: a boundless world. What looked adjacent turns out to be unreachable, while what seemed too far to be grasped appears so near that «it can be had».
It is the poet’s act of looking at things that gives them their meaning, but he has to wait for the moment when the brief and finite time that brought him the occasion for poetry will meet that other Time of which we are unable to know either the beginning or the end.
Paola Loreto